
Tamarri ellenici e dèi coatti

Tamarri, divinità e coatti – Chi frequenta i gruppi di scrittura su Facebook lo sa: spesso sono l’equivalente di un mercatino che vende roba rubata: da una parte c’è chi si autopromuove senza pietà, lanciando il link al proprio libro come si lancia un volantino in metro, senza nemmeno un “ciao” o un “buongiorno” o “senza neanche la cortesia di sbattertelo davanti“.
Dall’altra c’è chi rosica: gente che non vende, si lamenta, e poi se ti permetti di suggerire qualcosa per migliorare… ti rispondono con livore, magari infilandoci anche il proprio curriculum sperando che basti a guadagnare qualche centimetro di superiorità morale. È in questo clima da fiera della frustrazione che mi sono sentito dire: “Eh, ma tu scrivi di tamarri ellenici”. Da uno che poi ha millantato, un secondo dopo, di essere tipo il miglior scrittore al mondo e che ha addirittura fatto eventi a Milano.
Strano, eventi a Milano, che cosa originale.
Già questo, basterebbe a far scattare la sirena dell’ironia, perché uno scrittore che non conosce la differenza tra “coatti supereroi ellenici” scritto sotto “Mitologia” e “tamarri ellenici” soffre di quello che si può definire analfabetismo, e con che faccia una sorta di analfabeta dice che è in grado di vendere centinaia di copie di un libro?
Tamarro vs Coatto: lezione semiseria per chi ha sbagliato fermata del treno e soffre di disfunzione erettile
Chi mi dice che scrivo “di tamarri ellenici” ha già sbagliato vocabolario, geografia e probabilmente storia.
Il tamarro è una figura che si riconosce facilmente in ambienti settentrionali: scarpa fluorescente, musica a palla, tuning esasperato e poca sostanza, evolutosi poi nel maranza già negli anni ’80. Estetica sopra etica. Che poi in verità il tamarro rinchiude tutte le categorie, da Cerignola ad Aosta, ma tamarro come termine non si è mai usato sotto al Po.
Il coatto, invece, è un prodotto tipicamente romano: è spaccone, sì, ma anche teatrale, tragicamente umano, sempre un coglione, ma poi si potrebbe anche entrare nella differenza tra coatti e bori, ma onestamente non è questo il topic adatto.
Un eroe con l’accento marcato e la battuta pronta. Il tamarro lo trovi al centro commerciale, il coatto a litigare con l’autista dell’ATAC citando qualche politico.
Io scrivo di dèi che si comportano da coatti, non da tamarri. E c’è una bella differenza. Non fosse altro perché il tamarro è un’estetica, il coatto è un archetipo. E ancor di più, c’è quella differenza tra nord e sud che esiste ed è tangibile, quindi non carpirla è strano.
Il romanesco non è una maschera, è una casa
L’uso del romanesco nei miei reel, nei miei podcast o nei miei testi non è una posa, non è un costume da palco. È una lingua che mi porto dentro. È la mia comfort zone, il mio modo naturale di esprimermi. Non sono di Terni, e non faccio finta di essere romano: lo sono davvero.
Parlo più romanesco nelle interviste che con mia madre o con mia moglie, perché mi fa sentire protetto. È una corazza affettuosa che mi metto addosso quando voglio essere me stesso, davvero.
Il romanesco, a differenza di molti dialetti italiani, non è una lingua chiusa, ma un tono, un ritmo, una forma di pensiero. È il filtro con cui i romani affrontano la vita: sarcasmo, lucidità e affetto brutale. Un modo per dire tutto, anche le tragedie, con una smorfia da commedia che accoglie e abbraccia tutti.
E sì, so parlare anche italiano.
Lo facevo per lavoro, da avvocato, e lo faccio ancora oggi quando serve. A Milano, dove vivo ora, se parli troppo romanesco rischi di passare tre ore a sentirti dire “Aho! Mortacci tua!” da chi pensa che Gigi Proietti fosse l’inventore della cittadinanza romana.
Non scrivo di popoli, scrivo di dèi
E veniamo al punto: non scrivo di greci, ma dei loro dèi. Non è sociologia, non è antropologia, non è folklore. È mitologia. E la mitologia è piena di personaggi immortali, vendicativi, gelosi, arroganti e capaci di distruggere una città per un affronto d’onore o una mela d’oro.
Questi non sono esempi di popolo: sono archetipi dell’anima umana. E se oggi sembrano assurdamente attuali, è perché i miti non hanno paura di sembrare ridicoli, a differenza nostra.
In fondo, chi sono gli dèi dell’Olimpo se non un concentrato di coattanza cosmica? Sempre sopra le righe, sempre guidati da passioni primarie, sempre pronti a rovinare tutto in nome del proprio ego.
Ecco perché li racconto così: perché mi somigliano. Perché ci somigliano.
E perché, se vogliamo dirla tutta, Zeus è molto più vicino a un coatto romano che a un cittadino modello di Atene.
